Lilli Gruber: non farti fottere - come il supermercato del porno on line ti ruba fantasia, desiderio e dati personali

Non farti fottere, o del vittimismo contemporaneo


Non farti fottere: così recita il titolo dell’ultimo libro di Lilli Gruber. Un’espressione forte, questa, che non può non attirare su di sé l’attenzione di chi è abituato a frequentare i testi di Freud e di Lacan, e che resta sicuramente colpito dall’utilizzo – sebbene in forma negativa – della forma verbale riflessiva (non farti fottere): la forma verbale che, nella grammatica pulsionale di Freud, designa il traguardo della soddisfazione libidica, ossia il farsi volontaristicamente oggetto dell’Altro, il consegnarsi come cosa al godimento dell’Altro per assicurarsi quello strano e perturbante appagamento che si ottiene nel cancellarsi come soggetto. Mistero del genere umano che la psicoanalisi – bisogna riconoscerne il merito – ha messo al centro della sua ricerca.

Si potrebbe pensare che il titolo del libro della Gruber sia una sorta di ammonimento che – e si potrebbe estendere questa riflessione a tutti i comandamenti espressi in forma negativa: non uccidere, non rubare, non commettere atti impuri, ecc. – esorta a evitare qualcosa in cui l’umano – se non ‘si impegnasse’ per correggersi – inesorabilmente incorrerebbe. Sembrerebbe, allora, che quel titolo, nell’invitare il lettore a stare in guardia da una tale eventualità, implicitamente segnali la potenza di un qualcosa che all’interno dell’essere umano spinge proprio in quella direzione.

Ma non è questa la prospettiva dell’autrice: la quale, sin dalla copertina, esorta il suo lettore, concentrando in una sorta di imperativo la tesi principale dell’intero libro, a essere consapevole che è il porno a usare l’eventuale utente e non il contrario. Su questo punto, per certi versi, non si può non essere d’accordo con la Gruber: l’industria del porno costituisce un affare economico rilevante e, così come l’industria del gioco, è capace di illudere il ‘consumatore’ di essere lui il protagonista di una attività ‘ludico-ricreativa’ della quale, in realtà, egli è semplicemente l’inconsapevole ricettacolo. Ma la linearità del ragionamento della Gruber – certamente sostenuto da dati economici convincenti – non tiene conto di alcuni fattori che, forse, vale la pena ricordare.

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Circa quindici-vent’anni fa, quando si affermarono con successo le prime programmazioni televisive dei reality shows, decisi che ogni anno (per almeno 3-4 anni, mi dissi) ne avrei guardato uno. Volevo conoscere e comprendere quel fenomeno (stavo raccogliendo materiale che avrei successivamente utilizzato nella scrittura del libro L’epoca dell’inconshow) e sapevo che, per far questo, dovevo entrare a far parte del gruppo di telespettatori (la maggior parte dei quali erano letteralmente incantati da quel nuovo modo di fare intrattenimento televisivo). Ero convinto che la mia posizione di ‘osservatore’ mi avrebbe protetto dall’eventualità di un possibile coinvolgimento emotivo: così, in effetti, non fu. Non che, ovviamente, ne fui travolto o irreversibilmente trasformato, ma dovetti constatare che – contro ogni mia aspettativa – il dispositivo fondamentale di quel tipo di rappresentazione aveva il suo innegabile potere di agire sullo stato emotivo dello spettatore: e momentaneamente, anche sul mio. Il dispositivo centrale era (ed è tuttora) quello della nomination, ovvero dell’eliminazione di uno dei concorrenti: ogni reality utilizza questo arnese spettacolare che mette in scena una competizione tra simili, la lotta per garantirsi la possibilità di continuare a giocare (e vincere) ed evitare l’esclusione decretata dal giudizio degli spettatori. Un meccanismo che raggiunge il suo apice quando il conduttore, nel momento in cui sta per riferire l’esito del televoto, enfatizza la suspense, prolunga l’attesa della rivelazione dell’eliminato, espande il momento (al quale tanto il concorrente quanto lo spettatore sono sospesi) in cui ancora non si sa quale concorrente dovrà abbandonare il gioco. In quella messa in scena ansiogena e temporalmente dilatata, si realizza il nucleo cripto-perverso del programma, il suo mettere il concorrente alla mercé del godimento dell’altro (espresso in termini di televoto) e, contemporaneamente, il soddisfare quello voyeristico dello spettatore (che può proiettare i propri timori di insuccesso personale sulla disfatta del partecipante o, viceversa, identificarsi all’eliminato esorcizzandone, al riparo sul proprio divano di casa, i reali effetti devastanti). Insomma, un congegno spettacolare efficace, in grado di aspirare al proprio interno lo spettatore grazie alla capacità di attivare nuclei fantasmatici inconsci. L’ipotesi di essere l’osservatore neutrale che avevo pensato di essere fu smentita: contro ogni mia previsione, ero stato coinvolto nella partecipazione emotiva al programma. Mi ero volontariamente esposto a un meccanismo subdolamente perverso, certo di poterlo ‘studiare’ come fosse un oggetto qualsiasi, mentre, limitatamente alla durata del programma, quel meccanismo aveva agito su di me, elicitando reazioni emotive legate a fantasmi inconsci: intendiamoci, reazioni decisamente trascurabili, di scarsa intensità, passeggeri e fugaci, in grado, tuttavia, in alcuni passaggi particolari, persino di provocare una minima risposta somatica in termini di attivazione del corpo.

In maniera ancor più potente e incisiva, mi accadde qualcosa del genere quando, più o meno nello stesso periodo, per preparare le lezioni sulla clinica delle perversioni per una scuola di specializzazione in psicoterapia, mi decisi a fare il passo che fino a quel momento non avevo mai compiuto: entrare in siti porno. Anche in quel caso avevo ipotizzato di poter raccogliere del materiale per sviluppare un ragionamento aggiornato sulle pratiche perverse. E in parte fu decisamente così: la pubblicazione di un libro (Le perversioni nella clinica psicoanalitica) sancì, in effetti, il risultato di questa operazione. Ma, anche questa volta, l’esposizione a uno spettacolo capace di intersecare e rappresentare i più inconfessabili e inconfessati fantasmi di godimento (catalogati in generi e classificato in maniera quasi scientifica) non fu senza effetto. Sicuramente, in quella temporanea frequentazione, il materiale che ebbi occasione di guardare incrociò fantasie personali di cui ignoravo l’esistenza. L’aspirante scienziato che avevo pensato di essere fece posto al turbato e disorientato essere umano che, per la prima volta in vita sua, vedeva rappresentate scene che gli rivelavano l’esistenza, al proprio interno, di fantasie sconosciute. Il corpo parlava chiaro. Quel materiale incandescente reclamava di essere visto, ancora e ancora: una spinta a restare connesso, in posizione di ricettacolo inerme (che è la posizione dello spettatore). Anche in questo caso, la presenza di reazioni inattese (psichiche e corporee) aveva smentito la presunta neutralità dell’osservatore. C’era vita in quella posizione. Fu questa consapevolezza il risultato più sorprendente di quella breve esperienza.

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La Gruber, probabilmente, vedrebbe in queste due situazioni la conferma delle sue tesi: in effetti, il meccanismo spettacolare che agisce dietro di esse poggia su una strategia economico-commerciale efficace, capace, cioè, di utilizzare strumenti manipolativi e attrattivi per ‘fidelizzare’ l’utente. Il quale, pur credendo di scegliere come e quando partecipare a un determinato spettacolo, in realtà si trova subdolamente vincolato e imprigionato in un dispositivo che, proprio con la sua inconsapevole partecipazione, contribuisce ad arricchire e a potenziare.

Una lettura del genere – bisogna specificare – mette chiaramente in evidenza la convinzione dominante nell’odierna Weltanshauung, che considera il soggetto la vittima inconsapevole di progetti politico-economici spregiudicati. Il che, innegabilmente, coglie un punto di verità: effettivamente, il potere che i media esercitano sull’individuo non può essere considerato secondario o marginale. Soprattutto se pensiamo agli effetti che l’esposizione imprudente a contenuti così sensibili produce sui minori: sui quali è verosimile che i materiali emotivamente potenti di cui ci stiamo occupando, più che alla attivazione di fantasmi inconsci già costituiti, contribuiscano, in maniera determinante e ancora non del tutto chiara, alla loro formazione (e deformazione).

Ma se ci limitiamo a considerare l’impatto della produzione spettacolare (pornografica o no, poco conta) sull’adulto, attribuire alla macchina del consumo il potere di condizionarne ogni sua scelta (negandogli, di fatto, la libertà) rischia di convalidare l’ipotesi di una sua totale deresponsabilizzazione e di ratificarne l’assoluta innocenza: in piena sintonia con lo spirito del tempo, per l’appunto. Il cittadino, in questa moderna narrazione, è una vittima potenziale: per questo, va difeso e educato (non farti fottere, gli dice la Gruber). Ciò che gli accade è il frutto di un’azione non sua, esclusivamente subìta. Nessuna implicazione, nessun coinvolgimento soggettivo.

L’ingenuità del soggetto dell’inconscio, al contrario, è un concetto inapplicabile in ambito psicoanalitico: se è pur vero, infatti, che l’industria dello spettacolo è in grado di slatentizzare fantasie che, come noto, compromettono la serenità della vita del nevrotico (agganciandolo sintomaticamente ai suoi prodotti), l’adesione acritica che osserviamo (ad esempio, nei casi di dipendenza) presuppone l’incidenza di un altro fattore.

Di fronte all’incalzante strategia di infantilizzazione del cittadino e alla diffusione dei comitati di difesa che nascono per sostenerlo, occorre allora riaffermare l’implicazione del soggetto dell’inconscio nelle dinamiche sintomatiche nelle quali si intrappola, e la sua compiacenza nel trovare soddisfazione in situazioni di sottomissione e di soggezione.

Il non farti fottere della Gruber colloca il nemico all’esterno, segnala il pericolo al di fuori di sé: è una denuncia dello sfruttamento che il capitale (nella sua incarnazione ‘spettacolare’ descritta da Guy Debord) esercita sul cittadino contemporaneo. Ma la psicoanalisi insegna che il ‘nemico’ è anche all’interno, che è anche e soprattutto dentro di sé: un nemico ambivalente, tuttavia, che minaccia e al contempo promette, che toglie e che dà, che fa sentire vivo il soggetto proprio nell’imminenza del suo annichilimento.

Il successo dei siti porno, ma aggiungerei anche delle pratiche di gioco online, di chirurgia estetica esasperata, di dipendenza dalle serie tv o da social media, ecc. si spiega in virtù della tendenza del soggetto a farsi oggetto, tendenza che costituisce il nocciolo libidico irriducibile di ogni fantasma. Centrale, di conseguenza, non risulta essere l’influsso manipolatorio dell’Altro sociale, ma l’enigmatica spinta del soggetto stesso a consegnarsi come oggetto nelle mani dell’Altro.

In questa prospettiva, dunque, non è lo spettatore a guardare lo spettacolo ma è lo spettacolo a guardarlo, inchiodandolo nella posizione passiva alla quale, però, egli stesso volontariamente si consegna. Lo spettatore del reality non assiste semplicemente all’eliminazione del concorrente, ma è lui che, intrappolato nella visione, si esclude dalla propria vita: nell’uscita di scena del protagonista del gioco si realizza la propria cancellazione, alla quale una parte di sé lo vota. Analogamente, il dipendente da social media si mette di propria iniziativa al servizio di uno spettacolo globale che trasforma ogni atto della sua esistenza in un episodio di una trama di cui lui è una solamente una comparsa. Così come l’utente del sito porno non vede due (o più) esseri umani che fottono, ma è lui che si fa fottere da quella visione, restando imprigionato in una scena che, all’apparenza, lo annulla come soggetto. E la mano con cui si masturba non è altro che la mano dell’altro (dello spettacolo) che gode del suo prestarsi come oggetto inerte.

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Resta, infine, da chiedersi cosa cerchi il soggetto impegnandosi in un’attività che, per l’appunto, la Gruber definisce farsi fottere.

L’idea che mi sono fatto ascoltando pazienti alle prese con questi fenomeni è che il soggetto cerchi sé stesso: affermazione paradossale, che meriterebbe una trattazione a parte. Mi limiterò a dire che, in questa logica controintuitiva, la ricerca della soddisfazione pulsionale che il soggetto sperimenta nel farsi oggetto risponde a una aspirazione fondamentale: ritornare all’attimo in cui la vita è emersa dalla non esistenza che l’ha preceduta, dal regno dell’inanimato dalla quale proviene. Rappresenta, in altre parole, il tentativo di rientrare nella situazione nella quale il soggetto è emerso, in virtù dell’intervento dell’Altro, di cui il futuro soggetto non era, all’epoca, nient’altro che un oggetto. Nella soddisfazione pulsionale legata al farsi oggetto (nel farsi fottere), risuona, dunque, la condizione di partenza del soggetto, costitutivamente oggetto dell’accudente, al quale il soggetto intende – a sua insaputa – riconnettersi.

La soddisfazione della pulsione che inchioda il soggetto nelle dipendenze alle quali abbiamo accennato è correlata, in sostanza, alla ricerca di un’affermazione di sé, al tentativo di recuperare quella consistenza che, solo in quanto oggetto (libidico) dell’Altro, egli ha, per così dire, per un attimo, assaporato. Questo è il vantaggio che il soggetto si assicura, persino nel suo simultaneo svanire di fronte al video porno.

La pulsione incalza il soggetto a riappropriarsi di quel momento lì, di quel momento in cui il corpo è sorto dall’organismo, del momento in cui la libido si è affermata e istituita come puro istinto di vita, di vita incontenibile, di vita semplificata e indistruttibile. È lì che la pulsione tenderà a tornare, alla ricerca di quella fibrillazione vitale e soggettivante originaria, nell’illusione di poter tornare a quell’essere principiale da cui l’alienazione significante lo ha definitivamente esiliato.

Analizzato da questa angolazione, il farsi oggetto del soggetto rappresenta, allora, il passaggio necessario per il riaffermarsi del soggetto stesso, colto nel suo momento epifanico e originante. La tenacia della soddisfazione pulsionale, pur nelle sue più problematiche manifestazioni (alle quali il libro della Gruber fa riferimento), va spiegata tenendo conto di tale effetto-soggetto.

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In conclusione, la sottomissione del soggetto alle sempre più disinvolte logiche neoliberiste che organizzano il fenomeno della pornografia (ma anche di altri fenomeni di dipendenza) non può essere compresa riducendo il soggetto a vittima di un sistema di sfruttamento politico-economico. Il compito del clinico è favorire una lettura della psicopatologia che consideri come dato determinante la docilità strutturale del soggetto a farsi fottere, in una sorta di inquietante complementarietà tra la potenza infiltrante dell’economia consumistica (che trasforma tutto in oggetto) e la disponibilità costitutiva del soggetto a farsi oggetto. Il che, probabilmente, può aiutarci a comprendere meglio il motivo dell’estrema facilità di penetrazione e di indisturbata affermazione del discorso capitalista nelle società umane.

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