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Il fondamento e la struttura generale della presupposizione

Pubblichiamo un estratto dal saggio di Giovanni Leghissa Il fondamento e la struttura generale della presupposizione, comparso sul numero 10 della rivista «Kaiak. A Philosophical Journey».
Il testo nella sua interezza è reperibile in www.kaiakpj.it.
Ringraziamo l’Autore per la gentile concessione.

Fondare è un’attività che caratterizza in maniera eminente la pratica filosofica. I filosofi che non accolgono di buon grado l’idea che la filosofia sia una pratica tra altre tendono a far coincidere le strutture argomentative della fondazione con quel dispositivo discorsivo che serve a produrre un fondamento, a mostrare cioè che c’è, da qualche parte, un luogo originario destinato ad accogliere il fondamento, a ospitarlo, a renderlo insomma operante sul piano concettuale. Innanzi tutto e per lo più si tratta di un atteggiamento che, parallelamente, comporta anche una rimozione del metaforico dal livello discorsivo entro cui si sviluppa il pensiero filosofico. Nelle considerazioni seguenti vorrei invece mostrare che non c’è nessun fondamento, anche se ci sono buone ragioni per sostenere che la pratica della fondazione, intesa, come detto, quale pratica eminentemente filosofica, debba continuare a far parte del modo abituale di esercitare la filosofia. Occuparsi della fondazione senza giungere a fondare, senza arrivare a dire che c’è un fondamento e che questo funziona così e così, significa fornire un’ostensione e una decostruzione della struttura generale della presupposizione, significa articolare un pensiero che si rivolge alla propria origine, che si interroga sulla propria genesi e che di questa dà conto. Sarà principalmente a Husserl che mi rivolgerò per articolare il senso della presente proposta. Sullo sfondo, rimarrà l’idea che il gesto che istituisce l’interrogazione sulla fondazione non fonda alcunché, non inizia un percorso che termina con la posizione di un fondamento, ma mostra che ci sono strutture che fungono da fondamento, che svolgono il ruolo retorico del principio primo e indiscusso – ovvero assoluto, cioè staccato da ciò che deve essere fondato. Da ciò non si dovrà dedurre che il fondamento altro non è che una finzione; si dovrà piuttosto coglierne la valenza artificiale, retorica, metaforica, quindi instabile e negoziabile, sapendo nel contempo che gli atti del presupporre sono parte del processo entro cui si dipana quella peculiare forma di razionalità che è la razionalità della teoresi.

Innanzi tutto, partirei dal fatto che la struttura generale della presupposizione ha basi empiriche. Detto altrimenti: il tentativo di porre un fondamento da cui far partire il pensiero è una pratica che risponde a esigenze che non si giustificano in sede teorica in quanto dipendono dal modo in cui si è evoluto Homo sapiens, ovvero quell’animale che noi siamo. Si tratta di esigenze che rimandano a quelle componenti emozionali e affettive della pratica filosofica in virtù delle quali si infilano nel testo filosofico il bisogno di sicurezza, la nostalgia per la patria perduta, il desiderio di obbedire a un padre autorevole, o di sentirsi protetti da una madre amorevole. Tale plesso di emozioni e affetti, che qui non analizzo in modo dettagliato, è strettamente imparentato con la tendenza a scambiare la libertà per ottenere, in cambio, sicurezza. Non per caso, filosofie che si traducono in una riflessione sul politico dalle forti valenze democratiche, egualitarie, antiautoritarie sono anche – tendenzialmente – filosofie che, pur riconoscendo il carattere vincolante del bisogno di sicurezza, si impegnano a costruire scenari teorici in cui non viene posto alcun fondamento al di fuori del piano di realtà che ospita tanto il soggetto della scienza quanto il campo oggettuale preso di mira dalla teoria – sono insomma filosofie dell’immanenza, per dirla con una formula da manuale, ma preferirei chiamarle filosofie del paradosso. Offre un buon esempio di ciò Spinoza, autore di una costruzione teorica che si fonda su sé stessa e che quindi è eminentemente infondata, nonché fine indagatore del bisogno umano di ottenere sicurezza una volta che si sia rinunciato a confrontarsi con l’infondatezza. Nel Tractatus theologicus-politicus sostiene che, quando si dà una situazione in cui tutta la società può esercitare collegialmente il potere, ciascuno deve «servire a sé stesso» e nessuno è «tenuto a servire al suo eguale». Una condizione, questa, altamente desiderabile ma assai rara, in quanto è raro che gli umani accettino l’insicurezza che accompagna, necessariamente, l’esercizio collettivo del potere. Ma più che a Spinoza è a Nietzsche che corre subito il pensiero quando si voglia riflettere sulla fondazione antropologica del bisogno di fondazione, ovvero sull’esibizione delle motivazioni storicoculturali che spingono gli umani a cercare patrie originarie e protettive non solo quando si riuniscono in un collettivo organizzato gerarchicamente ma anche quando si mettono a fare i filosofi e discutono dei principi primi. Coloro che si cimentano nell’impresa filosofica non si comportano, in questo senso, molto diversamente da una qualsiasi tribù studiata dagli antropologi, solo che anziché costruire un idolo da porre nella pubblica piazza, al fine di rendere visibile il simbolo della sovranità, costruiscono un idolo concettuale, che permette di metaforizzare il luogo dell’origine – e ciò proprio mentre tale origine metaforica viene sapientemente occultata e rimossa. Tale rimozione andrebbe interrogata anche in termini psicoanalitici, dal momento che proprio la psicoanalisi ci fornisce utilissimi strumenti di indagine in direzione di una comprensione piena del fenomeno a cui mi sto riferendo. Le strutture identitarie che la psicoanalisi descrive, tanto quelle dei collettivi quanto quelle individuali, ruotano attorno a un fulcro ben preciso, costituito da un’immagine – un sembiante, per usare un termine caro a Lacan – che condensa i significati dell’unità, dell’unione, della stabilità e, soprattutto, del bene. È infatti un bene, in termini antropologici, poter identificarsi con entità istituzionali – o con individui che di queste entità sono i rappresentanti – le quali garantiscano la coerenza delle narrazioni condivise, ovvero delle mitologie collettive che permettono di rendere non attuale e non pertinente la domanda circa l’origine e la destinazione del collettivo a cui si appartiene. Parimenti, per molti – e ciò ancora oggi – è un bene sapere che c’è un unico fondamento ultimo e che su di esso si può fare affidamento quando dobbiamo giustificare la posizionalità dell’insieme di tutti i concetti possibili, quando cioè dobbiamo esibire la capacità che il concetto è supposto possedere di esaurire il mondo, inteso quale insieme sia di ciò che esiste, sia di ciò che, pur non esistendo, sussiste nel regno del pensabile. La psicoanalisi, in particolare quella lacaniana, mostra due aspetti di questa struttura della presupposizione che sono strettamente intrecciati tra loro e ne offre un’opportuna decostruzione. Da una parte, si tratta di cogliere il carattere di miraggio che ha tale sembiante, il fatto cioè che dietro a esso non c’è nulla, se non il reale, inteso come l’abisso angosciante della mancanza di fondazione – un abisso che Kant nomina chiaramente nella prima Critica quando evoca la questione della necessità incondizionata, chiamata appunto a fugare l’angoscia di fronte alla mancanza di fondamento. Dall’altra, si tratta di analizzare le ragioni della ricerca di fondamento, le motivazioni che spingono filosofi e non filosofi ad articolare la struttura generale della presupposizione in modo tale che il buco del reale venga riempito.

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